venerdì 29 maggio 2015

Non applaudite al mio funerale

"Ho dato disposizione che il primo che applaudirà al mio funerale sarà tormentato la notte per decenni".
La battuta, folgorante, è del grandissimo Riccardo Muti. Lo ha detto oggi, a Bologna. E io credo che abbia ragione. Il contesto era quello della presentazione del Falstaff al Ravenna Festival di luglio. E il tema era quello della sacralità del silenzio necessaria in alcuni momenti, come nell'ascolto della musica. O, appunto, ai funerali. Una battuta, certo, che Muti ha regalato con lo strepitoso sense of humor che gli è proprio, che io ignoravo, non avendolo mai incontrato prima. Ma una battuta "vera".
Già Gillo Dorfles, nel celebre "Horror Pleni - La (in)civiltà del rumore", invoca un mondo meno rumoroso, privo di quel rumore di fondo di chiacchiere e rituali inventati per esorcizzare tutto ciò che è più grande di noi. E che Muti, con questa battuta, sintetizza mirabilmente.

domenica 24 maggio 2015

Chiedimi chi erano i fantilventi del Piave


Tutte le mattine, dalla prima alla terza elementare, la nostra maestra (che era anche la vicepreside) radunava tutte le classi nel salone centrale della scuola per cantare prima dell'inizio delle lezioni. Ogni classe era rigorosamente organizzata in fila per due, in ordine di altezza, piccoli davanti, grandi dietro. Io ero in seconda fila, ma la frustrazione di essere basso era ampiamente compensata dal fatto di avere di fianco Giulia, la mia morosina, anche se lei ignorava di esserlo.

Solo chi è nato a Vittorio Veneto (come me) può avere un'idea di quanto l'immaginario della 1^ Guerra Mondiale abbia influito sulle scuole. Per noi, nati negli anni '60, era normale tutte le mattine essere intruppati lì nel salone e cantare a squarciagola "il Piave".

Dovevo  però essere molto disinteressato, o comunque avevo un approccio decisamente meccanico e poco patriottico al canto, dato che per i primi tre anni, mentre cantavo, mi sono sempre chiesto cosa fossero mai i "PRIMI FANTILVENTI" di cui parlava la canzone.

giovedì 21 maggio 2015

I sessantottardi dell'Aula C, parodia della rivoluzione

Non credo che Ivo Germano se lo ricordi, ma io me lo ricordo bene. Un giorno, poco prima di Natale del 1989, Ivo era entrato nell'Aula C della Facoltà di scienze Politiche. Io ero dentro l'aula, insieme a un sacco di gente che studiava lì, come me e come lui, a Scienze Politiche.

Qualcuno di noi stava suonando la chitarra - la canzone era "Disperato erotico stomp" di Lucio Dalla - e cantavamo a squarciagola "non so se hai presente una puttana, ottimista e di siniiiiiiiiiistraaaaa".
Ivo, divertito dalla situazione, aveva chiesto: "Cos'è questo clima sessantottardo?".

Aveva detto proprio così: sessantottardo.

Mi ricordo che, come capita solo nelle situazioni in cui non abbiamo davvero un cazzo da fare, io gli avevo chiesto: "Perchè sessantottardo? Non si dice sessantottino?"
E lui aveva risposto che sessantottardo era più adatto, perché indicava chiaramente un tentativo maldestro di imitare un clima irripetibile. Sessantottino è un conto. Sessantottardo un'altra cosa.

E aveva ragione. Il 68 era passato da più di vent'anni.

La Pantera, quell'evento che per qualche mese ci aveva avvolti nel rassicurante gioco della rivolta, era pura parodia, era un gioco, era un'occasione identitaria, l'occasione per alcuni di noi di misurarsi con il mondo davvero adulto, con i temi importanti come i diritti.

Era pura recitazione, tra l'altro scadentissima. Una parodia, appunto.
Sessantottardo.

E quel pomeriggio, ben prima dell'occupazione - anche se era già nell'aria - eravamo proprio in quell'Aula C che già da tempo, lì in facoltà, accoglieva i più fancazzisti tra di noi, nel senso che ci si andava a studiare, certo, ma il cazzeggio imperava.

Ed era quella stessa Aula C che sarebbe stata occupata proprio in quel periodo da quei pochi - noi li conoscevamo tutti - che avevano preso l'abbaglio della contestazione dura e pura, intesa come lotta di classe e salvezza del proletariato, parole d'ordine già antiche all'epoca, ma che quei pochi irriducibili (molti di loro simpatici, questo va detto, ma fuori dal mondo) usavano ancora come sostegno teorico per occupare fuori tempo massimo quella che chiamavano un'aula "espressione del potere".

La maggior parte di noi, invece, era tornata sui libri, si era laureata e aveva intrapreso un percorso certo meno rivoluzionario e più impegnativo, tipo: andare a lavorare.

Negli anni successivi o, per meglio dire, nei decenni successivi, mi capitava ogni tanto di leggere qualcosa capitato nell'"Aula C occupata", e tutte le volte - passato lo sbigottimento di immaginare quella situazione, sospesa come una bolla temporale mentre il mondo andava avanti - trovavo conferma nell'epressione di Ivo, quel clima sessantottardo che non tramontava.

Una parodia della rivoluzione, mentre i veri bisogni erano fuori, così come fuori da quelle quattro mura c'erano i veri eroi dell'impegno civile e sociale, il volontariato, l'impegno politico, il mondo che evolve.

E l'imbrattamento delle statue, una volta cacciati dall'aula, non è affatto rivoluzione iconoclasta, è solo patetica vendetta del bambino offeso, che ora si dovrà misurare con il mondo. Ma con quello vero.

sabato 16 maggio 2015

Il consumo al quadrato

Una volta i premi della raccolta punti erano accappatoi, batterie di pentole e asciugamani. Oggi rata del mutuo, affitto e pieno di benzina. E' l'allucinante loop di questi tempi, "lavorare-per-consumare" che - portato ai limiti estremi - non regge più. Fino alla paradossale inversione di marcia, che si sbarazza del lavoro e porta all'induzione al cosiddetto consumo al quadrato: consumare per sperare di avere reddito per continuare a consumare. Fino al collasso, evidentemente.


mercoledì 6 maggio 2015

Il terremoto del '76 non era un treno

Quando si è sentito il terremoto erano passate le nove di sera da pochi minuti. Io e il papà eravamo da soli in casa, nel salotto. Io ero seduto e sfogliavo un fumetto. Il papà era in piedi e quasi certamente stava guardando la copertina di un disco di jazz o di musica classica, o comunque di un genere di musica da grandi. 

La mamma, i miei due fratelli e anche tutti i miei amici di via Ferraris, a Vittorio Veneto, erano rimasti fuori, giù in strada, perché tutti i giovedì di maggio alle otto e mezzo di sera in via Ferraris si recitava il rosario. I grandi partecipavano al rosario con grande impegno, o almeno a me pareva così. Noi piccoli, invece, recitavamo ave, paternoster e tutti i santi quasi in apnea, tirandoci le caccole e scoreggiando in silenzio per scommessa, e aspettavamo la benedizione finale per poter rimanere in strada a giocare almeno un’altra ora. 

Quella sera, però, dopo il rosario ero tornato subito a casa e davvero non ce n’era motivo, anche perché tutti erano rimasti giù in strada a giocare. Adesso non ricordo perché anche il papà fosse tornato a casa con me, ma immagino che la motivazione ufficiale data ai grandi - che invece lo avrebbero voluto lì per quattro chiacchiere - fosse di non lasciarmi solo a casa. Però io avevo undici anni e a casa da solo ci ero stato almeno centoventinove volte. 

Il papà è sempre stato piuttosto popolare e ricercato tra i grandi e anche tra i miei amici, però lui ha sempre vissuto le relazioni sociali come un’orticaria e penso che questa fosse la vera motivazione per accompagnarmi a casa
Insomma, eravamo noi due nel salotto quando alle nove e pochi minuti nella stanza si è sentito un rumore di sottofondo, basso, che poco alla volta riempiva la stanza. Ho alzato gli occhi verso il papà, che aveva ancora il disco tra le mani e anche lui si era fermato, come ad ascoltare. 

Non so il papà, ma quando a me sembrava di aver capito che rumore fosse – la caldaia, il disco che cominciava a girare sul piatto, un’auto in lontananza – quel rumore continuava a cambiare e si ingrossava e allora pensavo al muggito di una mucca molto mooolto grande e sempre più vicina e poi improvvisamente non era neanche più quello, era un treno, però un treno che stava per entrare in casa perché il volume era sempre più alto e invece non era neanche un treno, ma forse era qualcuno che aveva lasciato accesa la tivù a volume centomila al piano di sotto e stava per scoppiare, o l’ululato di una mandria, o forse era un aereo, ecco era un aereo, sicuramente un aereo che però stava per entrare dalla finestra perché ormai era un rumore che precipitava da tutte le direzioni e bisognava parlare a voce altissima per sentirsi l’uno con l’altro: “Papà, cos’è??? Papà cos’è”??? E il papà era rimasto in silenzio come una belva della foresta in ascolto di un pericolo, fino a quando aveva messo a fuoco: “Il terremoto, via, via!!”.

Improvviso come il boato che lo aveva preceduto, il terremoto a quel punto era arrivato davvero e mentre scendevamo le scale a rotta di collo a balzi di sette scalini alla volta, i muri avevano cominciato a spostarsi a destra e a sinistra e noi eravamo sparati come proiettili in quella specie di imbuto in discesa pieno di gradini che si muovevano da una parte all’altra.