martedì 19 agosto 2014

Come seppellire una persona con un titolo sbagliato

La lettura di un articolo vi ha mai provocato il blocco della respirazione? A me si, una volta, al bar, mentre stavo per divorare una brioche. Era un mio articolo. La mancanza di ossigeno l'ha provocata il titolo, che però non avevo scritto io. Era l'unica cosa che non avevo scritto. Ma ormai non c'era più niente da fare, il danno (irreparabile) era fatto.

La storia che avevo raccolto era quella che molti cronisti sognano prima o poi di poter raccontare: un riscatto. Una vita che sembra perduta e che invece, dopo mille vicende - spesso cupe e dolorose - trova una nuova via.
Da qualche tempo - diversi anni fa - avevo conosciuto R., un educatore in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Incontrandolo più volte per lavoro - dato che abbastanza spesso scrivevo di questi temi - eravamo entrati in confidenza. Poco alla volta, quindi, mi aveva raccontato la sua storia: lui stesso, prima di diventare educatore in comunità, era stato tossicodipendente. Poi, dopo un percorso di recupero riuscito perfettamente, aveva scelto di rimanere a lavorare in comunità. Aveva studiato, si era diplomato, aveva conseguito tutti i titoli per poter esercitare la professione ed era rimasto lì come educatore. E poi, poco alla volta, era diventato addirittura il responsabile di tutti gli educatori. La comunità, poi, aveva allargato la propria attività anche al recupero degli alcolisti e al supporto di altre forme di disagio. Era stato quindi necessario aprire altre strutture sul territorio e, poco dopo, moltiplicare l'esperienza in una rete di comunità sparse in tutta Europa.
R. alla fine era diventato il responsabile dei progetti rieducativi di tutta la rete delle comunità in Europa.
Un bel riscatto, no? Soprattutto per uno che aveva avuto una storia come la sua: emigrato da bambino all'estero in un Paese d'Oltralpe, non si era mai integrato. E nell'eroina aveva trovato il torpore per annichilirsi e sopportare un mondo che non era il suo.
Mi aveva raccontato che i genitori, nell'illusione di tornare presto in Italia, appena arrivati all'estero avevano sistemato la valigia sotto al letto, come se nel giro di pochissimi mesi dovesse essere riaperta per riporre le proprie cose e rientrare in Italia con il vento favorevole del trionfo.
Quella valigia, però, dopo qualche tempo era stata mestamente chiusa dentro l'armadio. Era evidente che l'idea di rientrare in Italia era praticamente scomparsa.
R., come tanti emigrati, aveva faticato molto a integrarsi a scuola. E, prestissimo, erano arrivate le prime canne con cui stordirsi, poi l'eroina. Aveva solo 15 anni e la sua vita era finita nel binario morto della tossicodipendenza.
I genitori avevano quindi deciso di tentare la via della comunità di recupero, accompagnandolo di nuovo in Italia.
E da lì, come detto, R. aveva ripreso in mano la propria vita, abbinando al riscatto personale e professionale anche la solidità di un matrimonio e l'arrivo di due figli.
Insomma, un trionfo in tutti i sensi.
A cui - se proprio uno ci tiene - mancava solo il sigillo del riscatto pubblico, in modo che i pochi che erano a conoscenza delle sue traversie giovanili, potessero sapere di che pasta era fatto e di come aveva saputo reagire.
Lui non ci teneva particolarmente a far sapere com'era andata a finire, a raccontare in un'intervista com'erano andate le cose. Anzi, proprio non ci pensava. Ma io avevo insistito, la sua storia poteva essere di grande incoraggiamento per tantissime persone.
Insomma, alla fine si era fatto convincere e lo avevo intervistato.
Per dare all'intervista una sorta di "fil rouge" che la caratterizzasse da cima a fondo, avevo scelto l'idea ricorrente di questa valigia risposta sotto al letto e poi sistemata dentro all'armadio, più e più volte, come emblema della grande difficoltà.
Ignoravo l'effetto che questa valigia avrebbe fatto al collega che, di lì a poco - quando la redazione stava già per chiudere - avrebbe titolato l'articolo. Si, perché - come forse non tutti sanno - in genere (almeno fino a qualche anno fa) nelle redazioni il titolo non lo fa l'autore dell'articolo, ma un collega, che rilegge il pezzo e individua un titolo che sappia essere sintesi del contenuto e che, allo stesso tempo, garantisca la necessaria enfasi per attirare l'attenzione del lettore.
Quando ho consegnato il pezzo - prima di tornarmene a casa all'ora di cena - ignoravo che il titolo lo avrebbe scritto chi si occupava spesso di cronaca nera (guidato dall'inevitabile lessico intriso di armi, rapine e inseguimenti) . Ma me ne sarei accorto il mattino dopo, al bar, dove ero entrato per fare colazione e leggere con calma l'articolo nell'edizione cartacea.
Sistemato il cappuccino sul tavolo e indirizzata la brioche verso il primo morso, avevo sfogliato il giornale per arrivare alla pagina dedicata a R.
Ed era stato a quel punto che l'aria mi era mancata, perché avevo capito che in un giorno avevo annullato un riscatto personale che aveva richiesto 15 anni di fatiche.
R. era ritratto in una grande foto. E, sopra di lui, a tutta pagina, il titolo diceva:
"Da Modena alla Svizzera con la droga nella valigia".

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